Biennale di Venezia: All the world's futures
Si è chiusa da qualche settimana la Biennale d'Arte di Venezia, dal titolo "All the world's futures", a 120 anni di distanza dalla prima esposizione del 1895 la Biennale e Okwui Enwezor indagano il passato, il presente e il futuro dell'arte attraverso lo strumento del dialogo e la chiave di lettura del palcoscenico.
Il mio approccio alla Biennale è ormai consolidato; preferisco arrivare all'esposizione d'arte veneziana con la testa, il cuore e gli occhi vergini da qualsiasi condizionamento, preferisco vivere il momento e lasciarmi andare alle atmosfere, forme, luci, colori, sensazioni, a lasciarmi guidare dall'istinto, dall'immediatezza, con curiosità e voglia di emozioni.
Quest'anno non ho potuto fare a meno di cogliere intorno a me alcune perplessità su questa Biennale prima di poterla visitare, perplessità che forse mi hanno condizionato, o forse mi hanno solo aiutato ad essere più attento nel corso della mia visita all'Arsenale e ai Giardini. Devo doverosamente fare una premessa; la mia passione per l'arte è emozionalmente intensa ma culturalmente superficiale, amo cibarmi d'arte principalmente con incoscienza e istinto. Altra doverosa premessa riguarda le location; la mia assoluta adorazione di un luogo per me straordinario quale l'Arsenale mi porta ad essere poco equilibrato nel confrontare i due spazi dedicati alla Biennale: Arsenale e Giardini. Detto questo, posso riassumere le emozioni della "mia" Biennale con due parole, con un ossimoro: armoniosa dissonanza. Le atmosfere dell'Arsenale mi hanno emozionato tanto quanto mi hanno deluso le dissonanze dei Giardini, allo stesso tempo ho trovato l'armoniosa delicatezza narrativa dell'Arsenale priva delle impennate emotive che mi hanno regalato alcuni padiglioni ai Giardini, come il padiglione della Russia, della Norvegia, della Corea, e ovviamente quello del Giappone, assolutamente il più fotografato di tutta la Biennale e divenuto icona indiscussa di questa esposizione. Poche emozioni dagli altri padiglioni dei Giardini, quasi nessuna dal Padiglione Centrale, mentre le emozioni più forti dall'Arsenale sono arrivate dai raffinati oggetti nello spazio degli Emirati Arabi e dalle maestose mostruose creature di Xu Bing.
Cosa mi resta di questa Biennale? Per chi come me ha una memoria prettamente fotografica (e si dimentica nomi e numeri in pochi secondi) è abbastanza facile a dirsi. Mi rimangono nella mente le vecchie chiavi appese a fili rosso sangue che incombono con angosciosa armonia su un barcone alla deriva, immagine di vita, morte, viaggio, solitudine, sofferenza, e speranza. Il senso di impotenza di fronte allo sguardo nascosto dietro ad un enorme casco d'aereo da combattimento. La quiete instabile di lunghi microfoni che attendono il suono di vetri già rotti e specchi deformati. Lo sguardo perso e inconsistente di una quotidianità futura immaginata.
Il mio reportage fotografico della 56ma Biennale d'Arte di Venezia è su flickr.
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